Buongiorno. Veniamo subito al dunque: cos’è questa storia delle zinnie sull’ISS? Perché fa notizia?
Renato Bruni: Perché è la prima volta che riusciamo a far fiorire una pianta ornamentale nello spazio, anche se non è certo la prima che proviamo a coltivare in orbita. I primi esperimenti di giardinaggio scientifico spaziale sono iniziati nel 1990. Diciamo che questa è stata la prima volta in cui gli astronauti hanno provato a mettere una pianta in condizione di fiorire, ed è andata bene praticamente da subito. Poi sa meglio di me che la foto di un bel fiore colorato in un contesto insolito, magari scattata da un astrofotografo, buca sempre lo schermo della nostra curiosità e invita l’occhio alla lettura e il mouse al clic.
Quindi è facile… basta avere un astronauta col pollice verde.
RB: Non proprio come gestire l’orto sul balcone. La vita in assenza di gravità comporta delle complicazioni non trascurabili. Ad esempio, bisogna evitare che piante, vasi e soprattutto il terriccio se ne vadano in giro fluttuando per la navicella, facendo e subendo danni o staccandosi dalle radici. Un’altra complicazione ancora è legata all’irrigazione: provi lei ad annaffiare se l’acqua forma sfere che galleggiano come bolle di sapone anziché imbibire il terreno. Si è anche visto, in precedenti tentativi, che senza gravità il prezioso liquido una volta costretto nel terreno non si distribuisce come sulla Terra, cambiando le carte in tavola per la pianta che la vuole assorbire. Qui da noi infatti l’acqua si diffonde nel terreno secondo un gradiente condizionato dalla gravità, mentre sulla ISS non accade. Il risultato è che le radici si distribuiscono nel terreno secondo seguendo tracce diverse, che ancora non abbiamo ben capito ma che potrebbero essere legate a sensori specifici di esplorazione, sensibili all’umidità. La convinzione secondo cui le radici “seguono la gravità” non è ora più così granitica ma, secondo alcuni, legata alla maggiore umidità del suolo più profondo. Intermini più tecnici, l’idrotropismo (ovvero la crescita radicale verso le fonti d’acqua) prevale sul gravitropismo (ovvero la crescita verso il centro di gravità). Altri problemi: le piante devono crescere in condizioni quasi sterili, la minima infezione batterica creerebbe problemi seri non solo all’orto ma anche agli astronauti, ma questo è diverso rispetto alle condizioni terrestri, nelle quali radici e foglie sono popolati di microrganismi spesso essenziali per la vita delle piante. Però è necessario: pensi al rischio di una gastroenterite sulla ISS per colpa di una verdura infetta o alla circolazione di muffe in un ambiente sigillato nello spazio siderale. L’habitat sigillato comporta un’altra limitazione, perché le piante emettono vapore acqueo che deve essere disperso, ovvero richiedono una ventilazione che oltre certe condizioni è difficile da ottenere nel chiuso di un’astronave. Proprio le zinnie di cui si parla ora hanno rischiato di morire qualche settimana fa a causa di un eccesso di acqua nell’aria e nel terreno. Come se non bastasse, ci si mettono le radiazioni. Alcuni decenni fa i russi hanno portato in orbita sulla stazione MIR dei semi di pomodoro e li hanno riportati sulla Terra dopo alcune settimane: avevano subito mutazioni genetiche venti volte superiori a quelle ordinarie sulla terra e e una volta piantati molti non sono stati più in grado di germinare.
Ne deduco che sulla ISS non ci sono vasetti di coccio come quelli di mia madre.
RB: Ecco, no. Da aprile 2015 gli astronauti stanno testando, evidentemente con successo, un nuovo apparecchio speciale per la crescita delle piante chiamato “Veggie”. Si tratta di un sistema molto compatto e flessibile, lo si può ingrandire mano a mano che le piante crescono al suo interno senza bisogno di fare strapianti. Ogni pianta cresce in una celletta contenente dei panetti a base di un’argilla speciale molto compatta, arricchita con un fertilizzante a lento rilascio. Per ovviare ai problemi di gravità viene rifornita d’acqua con un sistema di irrigazione per infusione, che assomiglia a una specie di stoppino umido. Ogni celletta è dotata di un’illuminazione a LED regolabile anche nel colore oltre che nell’intensità, in cui un temporizzatore regola le ore di luce, l’intensità e anche la lunghezza d’onda cercando di imitare le condizioni terrestri preferire dalla pianta.
Sulla Terra abbiamo le stagioni, le latitudini, il clima. So che le piante sono sensibili alle caratteristiche del posto in cui crescono. In orbita…
RB: E’ uno dei motivi per cui questo esperimento, oltre che curioso è importante. Dopo aver fatto molte prove in condizioni simili sulla Terra abbiamo provato a replicarlo nello spazio. Probabilmente senza la luce pianeta-simile e la sua modulazione le zinnie non sarebbero fiorite, dato che la qualità della luce ricevuta è uno dei fattori necessari a mettere in moto il processo fisiologico della fioritura. Ha presente le piante tropicali che portate in Europa non fioriscono? Uno dei motivi, oltre alle temperature, sono spesso la diversa qualità della luce e la diversa durata dei giorni durante i mesi, una cosa del tutto assente nelle astronavi, dove la luce artificiale è costante e quella solare pure. Ora la NASA sa che si possono ottenere fiori e quindi può passare al livello successivo: produrre dei frutti.
Immagino che sulla stazione spaziale lo spazio sia risicato. Ha senso dedicare tempo e spazio per queste cose?
RB: Certo che ha senso, per vari motivi. Il primo è che se vogliamo provare a fare viaggi più lunghi nello spazio dobbiamo trovare il modo di sfamare gli astronauti. La strada per fare come Matt Damon, che in The Martian coltiva patate per sopravvivere sul pianeta rosso, è ancora lunga ma da qualche parte bisogna iniziare. Nell’idea della NASA poi, dovrebbero servire anche come svago e come compagnia per gli astronauti, per il morale insomma. Il secondo motivo è che le informazioni raccolte con questi esperimenti servono a capire meglio il comportamento e il funzionamento delle piante anche sulla terra. Perché non sappiamo ancora tutto e scopriamo su di loro sempre qualcosa di nuovo. Ad esempio abbiamo stiamo scoprendo grazie a quali cambiamenti le piante si adattano alla vita nello spazio grazie alla loro innata flessibilità, la stessa che ha permesso loro di colonizzare ogni angolo del pianeta. Anche quelli del tutto inaccessibili alla vita animale. Si ricordi che questo pianeta l’hanno colonizzato molto prima di noi.
Ecco, questa cosa mi affascina.
RB: Per molti le piante sono esseri alieni rispetto agli animali e in quanto tali difficili da comprendere. Si ricorda il sistema di tortura o inflitto nei film western dai nativi americani a qualche malcapitato? Lo sotterravano in verticale, lasciando fuori solo la testa a livello del suolo. Il sole, l’arsura, le formiche e gli animali facevano il resto che può ben immaginare. Ecco, quella è la vita a cui si sono abituate le piante, immobili in un ambiente che non possono cambiare per tutto il resto della loro esistenza. Eppure ce la fanno alla grande e la chiave di tutto sta nella capacità di adattamento del loro metabolismo e nella flessibilità dei sistemi vitali, una cosa che abbiamo visto essere efficace anche in orbita. Questo comporta però anche dei cambiamenti. Ad esempio si è visto che senza gravità i rampicanti perdono la loro capacità di intrecciarsi attorno a un sostegno e dato che questo dipende molto dalla produzione di alcuni ormoni è probabile che tutto il sistema ormonale delle piante subisca forti modificazioni nello spazio.
Ma se perché far crescere e fiorire le zinnie? Non sarebbe più utile coltivare pomodori e insalata?
RB: L’insalata è già stata fatta crescere, con successo e soddisfazione: gli astronauti l’estate scorsa se la sono anche mangiata: un paio piante di lattuga romana per la precisione. Uno dei primi esperimenti è stato condotto su un parente del cavolo, anche se in quel caso non si è arrivati a produrre materiale commestibile. I pomodori arriveranno: si è scelto di far fiorire le zinnie proprio perché rappresentano un bel modello di pianta da fiore. La NASA ha già fatto i suoi piani e vorrebbe ottenere il primo raccolto di pomodori entro il 2017. Aspettiamoci delle belle foto anche per allora, se tutto va bene.
E l’insalata era buona? O sembrava quella preconfezionata, che non sa mai di niente?
RB: Gli astronauti sono stati contenti, ma vatti a fidare del giudizio di un ingegnere costretto a una dieta ferrea e con enormi limitazioni. Poi la soddisfazione per essere riusciti ad arrivare fino al momento della raccolta ha sicuramente condizionato il giudizio. Quello che è certo però è che dagli esperimenti fatti in questi anni sappiamo che il metabolismo delle sostanze che danno aroma, profumo e consistenza alle piante si modifica e si adatta alle condizioni che trova. Senza gravità, con luce artificiale, senza la compagnia di altre piante e dei tanti microrganismi che le accompagnano su foglie e radici le piante sintetizzano altri composti. Ad esempio producono meno lignina, una sostanza che fa assumere ai fusti una consistenza coriacea, ovvero restano più tenere e come le loro omologhe in serra tendono a produrre meno composti volatili, quelli che conferiscono profumo. Diventano anche più grandi, ad esempio le zinne fiorite nei giorni scorsi hanno dimensioni maggiori del solito. Molti esperimenti però sono ancora in corso. Ad esempio le foglie delle zinnie, così come quelle delle insalate verranno congelate e spedite a terra con un razzo per essere analizzate.
Insomma, se da questi esperimenti si arriverà al business ortrofrutticolo spaziale dovremo aspettarci il rilascio di un’indicazione geografica topo DOP e IGT per le melanzane orbitali.
RB: In un certo senso sì, sicuramente [ride…]
Scopri Erba Volant in tutte le librerie, su Ibs e Amazon
(Vai alla scheda del libro)
The post Renato Bruni: “Ecco com’è nato il primo fiore nello spazio” appeared first on Codice Edizioni.